sabato 30 giugno 2018

MIX Newsletter bis / Giugno 2018 / Editoriale


CAMBIARE

Un governo c’è. È stato tortuoso il procedimento per rispettare un risultato elettorale - difficile da decifrare - che tuttavia il Presidente della Repubblica ha voluto - con pazienza, competenza istituzionale e rigore procedurale - perché fosse coerente con quel risultato: ha rispettato il voto e onorato lo spirito e la lettera della Costituzione.
I 70 minuti del discorso di presentazione alle Camere non potevano essere meno impegnativi; nella genericità può starci tutto e il contrario e infatti molti degli slogan delle campagne elettorali dei due contraenti erano svaniti e ne sono apparsi altri, compreso qualche svarione di galateo politico e cerimoniale. Il primo ministro non è stato eletto come altri ministri e ciò dice che è sempre bene essere prudenti prima di lanciare anatemi e moralismi. Il fatto è che non erano a disposizione classi dirigenti preparate. Anche la presenza femminile è diminuita e ancora una volta ma sono aumentate le poltrone di sottosegretario rispetto al governo Gentiloni. E in definitiva, ancora una volta non è stata scelta una donna come primo ministro, magari eletta. Chissà se mai in Italia avremo una Premier e una Presidente della Repubblica donna!
Ora è importante che il Governo sia messo in condizione di lavorare - perché è interesse del Paese- anche se le prime mosse hanno presentato non poche incongruenze. Dipende forse dallo strumento che dovrebbe guidare la navigazione. Non mi piace il “contratto” perché introduce alcunché di privatistico nella attività più importante e impegnativa di servizio al Paese. Ancora... più privata è la piattaforma Rousseau che è insinuata tra i gangli della amministrazione statuale.
Una ulteriore ingerenza privata riguarda una convenzione fra Lega (di cui però il ministro dell’interno è segretario) e Russia unita (partito che sostiene Putin) basata su un “partenariato paritario e confidenziale”, un “accordo sulla cooperazione e collaborazione” fra i due partiti.
Un contratto è l’accordo tra due o più parti per costituire, regolare od estinguere un rapporto giuridico patrimoniale. È la massima espressione dell’autonomia privata, del potere che hanno i soggetti di dettare una regola ai propri interessi. Il contratto produce effetto solo tra le parti; può produrre effetti nei confronti dei terzi solo nei casi ammessi dalla legge.
Non c’è dubbio che il Presidente Conte conosce benissimo come docente e per professione la materia.
Anche al G7 ha ricordato che si farà guidare dal contratto. Ma il primo obiettivo di chi deve guidare una nazione dovrebbe essere l’esposizione di una visione. Il contratto ha sommato punti programmatici senza che configurassero obblighi con scadenze, finanziamenti, ecc. Il “governo del cambiamento” dovrà fare i conti col principio di realtà. Non a caso si ricorda la battuta di Nenni che a palazzo Chigi non trovò il bottone del potere.
Voglio, posso, comando: ma con le procedure, col rispetto del Parlamento, con la legittimità degli atti. Di Maio ha affermato “lo Stato siamo noi”: no! Noi tutti i cittadini italiani, non il Governo del Paese, i cittadini della Repubblica in un territorio, l’Italia, con fini comuni e doveri, gli uni verso gli altri.
Una rivendicazione orgogliosa di essere populista da parte del presidente del Consiglio? Non è un titolo di merito se si intendesse nel significato proprio; non credo si voglia essere antipolitici, dovendo esercitare il potere politico per attuare il contratto. Il populismo stimola una concezione egocentrica e identitaria che nega una visione futura comune.
Gli argomenti più ricorrenti per tenere legato l’elettorato da parte dei populisti fanno leva sulla paura e sugli interessi individuali. Cosicché anche l’interesse nazionale viene sottomesso al contingente, nelle nicchie di proposte (flat tax, reddito di cittadinanza, ecc.) invece che proporre e impegnare la Nazione verso un obiettivo, grande e storico davvero: gli Stati Uniti d’Europa. L’Europa siamo noi! Non si può dire come ripetono i nostri governanti “Andiamo da quei signori a Bruxelles”, in quanto ci siamo anche noi in Parlamento, nella Commissione e nel Consiglio. Si possono battere i pugni sul tavolo facendo parte della squadra e, comunque, quando si gioca si rispettano le regole che abbiamo partecipato a scrivere. Si possono cambiare, certamente. Ci si deve applicare con un lavoro di grande respiro, insieme con gli altri Paesi Fondatori - Francia e Germania - (gli attuali rappresentanti passeranno, ma le future generazioni avranno un grande Paese). I nostri governanti possono scrivere la storia di una Federazione che rappresenta il 7% della popolazione mondiale, il 25% del Pil, l’area più ricca di brevetti, un continente primo in tutto: varrebbe la pena impegnare tutti i cittadini in questo sogno, gli Stati Uniti d’Europa.
Purtroppo il governo non ha ancora evidenziato in politica estera un sentire unitario e in continuità con le scelte passate, mai revocate, dell’Italia.
Per quanto ogni maggioranza deve attuare il proprio programma, le istituzioni hanno una loro continuità ed è importante, anche per non ricominciare sempre da capo, conservare ciò che di accettabile hanno lasciato in eredità i governi precedenti. Il sen. Salvini, che pure ha riconosciuto il lavoro fatto da Minniti, ha messo in scena con la nave Aquarius il peggior spettacolo dal punto di vista umanitario (siamo il Paese tra i fondatori del diritto umanitario con la prima convenzione di Ginevra) e ha solennemente rivendicato la vittoria affermando che “fare la voce grossa paga”. Se l’esempio viene dall’alto, è questo il messaggio educativo che si lancia all’opinione pubblica da parte dei governanti? Questa è propaganda; invece, un vice primo ministro chiama tutti i colleghi europei, annuncia loro la volontà di chiudere i porti e con loro decide il da farsi: questa è politica. E non sarebbe stata risparmiata la sgradevole ingerenza francese. “Ora l’Europa ci ascolterà; parleremo con Bruxelles”: curiosa questa attribuzione di antropomorfismo a quella che è l’istituzione di tutti gli Europei. Come pure impressiona che non si spieghi mai perché è obbligo e non costrizione seguire le regole votate a Bruxelles. Se non rispettiamo, per esempio, i vincoli finanziari creiamo difficoltà nei 19 Stati con la stessa moneta. Non possiamo, non dobbiamo danneggiare gli altri 18 con le nostre politiche sovraniste.
Di sovrano abbiamo il nostro grande debito, che è comperato da tanti altri Stati, per cui se l’Italia perde la fiducia i ‘sovrani creditori’ abbandoneranno i nostri Bot. Alcuni decenni fa il nostro debito era in mano agli Italiani per il 60%, oggi è il contrario. E lo spread non è una parolaccia, se non perché indica quanto ci costa ogni punto di spread in interessi che l’Italia paga, che è come dire quanto ogni risparmiatore perde. Perché non spiegare bene agli elettori la realtà e animare un po’ di europeismo invece che paura e scetticismo? I voti sono volatili, ma la vita dei figli e dei nipoti dei governanti e degli elettori di oggi si svilupperà in un futuro migliore di come è fatto presagire dalle opportunistiche, mistificatorie narrazioni delle campagne elettorali.
Finalmente con il voto di domenica 10 giugno dovrebbe essere finita la ...infinita campagna elettorale. Faticoso anche completare la squadra di governo; per quanto abbiano in spregio il manuale Cencelli è stato usato per distribuire le due poltrone dei due vice primi ministri, come già prima per la assegnazione delle cariche dei vertici parlamentari.
E a proposito del voto di domenica 10 giugno c’è poco da essere soddisfatti anche da parte di chi ha perso poco o ha guadagnato ancora di meno. Si è visto che è facile passare dal “cappotto” ad una percentuale di poco superiore ai due numeri. Perciò l’opposizione non si accomodi nell’attesa delle sconfitte altrui: dovrà essere attiva in Parlamento come si conviene in democrazia. Anche, e forse soprattutto, l’opposizione dovrà attivare una azione di controllo parlamentare e di rapporto con l’elettorato con un ben diverso armamentario linguistico, comportamentale e programmatico.
Basta battute! Essere vertici di un Paese chiede serietà dei modi, del vestire e del parlare.
Il PD prepari l’alternativa al cosiddetto Governo del cambiamento con l’unità di intenti e organizzativa. Prepari una classe dirigente partendo dagli enti locali. Urge aggiornare la visione di sinistra della società; i nodi culturali sono immigrazione ed Europa. Perché Salvini è condiviso dalla maggioranza degli Italiani (compresi gli elettori del Pd)? Perché in 5 anni non si è governato un fenomeno epocale e destinato a durare (Minniti ha soltanto cominciato).
La realtà in Italia, in Europa e planetaria è completamente diversa da quella che ci siamo rappresentata: nella società c'è grandissimo disagio, c'è dolore, c'è diseguaglianza, c'è un'incertezza dei genitori per la sorte dei figli e altrettanta incertezza dei figli per il loro futuro. E c'è un'Europa imperfetta e sempre più disgregata. C’è il pianeta Terra – la casa comune – che urla contro il degrado che stiamo portando, ma l’ambientalismo invece di divenire politica globale si limita a grida ideologiche.
Cambiata l’organizzazione del lavoro e si sono destrutturate le classi sociali; cambia il rapporto tra lavoro e tecnologie e crea una condizione nella quale precarietà, flessibilità e fine di certi lavori hanno come risultato conseguenze antropologiche. Cambia la composizione demografica del nuovo mondo, le popolazioni invecchiano. Come reggeremo il "welfare state" con pochi che lavorano e molti da sostenere? Ci sono problemi giganteschi sui quali la sinistra dovrebbe ragionare e influire con i suoi valori.
Non potrà esserci una politica Dem senza che si ricostruisca una comunità del Noi; una visione che contrasti la paura, perché i cittadini hanno diritto alla serenità sociale e sentano quanto gli uni debbono agli altri: siamo interdipendenti - tutti - sia nelle relazioni interpersonali che internazionali. Siamo sempre interconnessi, e non solo on line!
Cambiare, parola molto usata, dal significato ambiguo. Vorremmo utilizzarla solo per indicare un percorso di cambiamento verso il meglio, perché, purtroppo, si può cambiare anche in peggio. (m.g.)

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