PROVARE
La
democrazia è questa: la maggioranza ha sempre ragione (non
necessariamente con ragione) e ogni voto ha lo stesso valore: quello
del premio Nobel come quello di una persona incolta.
I
risultati delle recenti consultazioni hanno stupito tutti: vincitori
e sconfitti. Sorprendente è stato constatare che la legislatura
appena conclusa, nonostante sia stata molto produttiva ed abbia
avviato l’uscita dalla crisi, non abbia procurato consenso ai
partiti che hanno sostenuto il governo. Ma non è la prima volta che
quando il vento cambia le sorprese non mancano. Ci sono esempi
storici come la sconfitta alle elezioni di Churchill, che aveva vinto
la guerra. Soprattutto si sapeva che con l’attuale legge non si
sarebbe conosciuto, ad urne chiuse, chi avesse la responsabilità di
governare. Una pessima legge perché non ha raggiunto nemmeno
l’ipotesi subordinata di costringere ad allearsi e far vincere una
coalizione.
All’entusiasmo
per il successo conseguito, nei vincitori è subentrata l’ansia di
non poter realizzare l’agognato ingresso a Palazzo Chigi.
Nel
Centrodestra con “cortesia” gli alleati non possono che ripetere
vicendevolmente che i patti devono essere osservati e che ha diritto
ad aspirare alla premiership l’onorevole Salvini. Nel Movimento 5
Stelle non può nemmeno porsi un sottile conflitto, perché non è
mai stata messa in discussione la candidatura di Luigi Di Maio.
Entrambi alla ricerca di una maggioranza: perché? E con chi?
Semplice, perché bisogna provare a governare!
È
stata una campagna senza esclusione di colpi ed è ovvio che i toni
sono stati più alti del necessario e spesso anche esageratamente
oltre i limiti, con una violenza verbale, quando non anche volgare,
non adatti a mantenere serena la società. Anzi, in occasione di
tragedie (Macerata e Latina) alcune forze non hanno esercitato la
loro alta funzione di guida della democrazia, ma di fomentatori.
Per
costruire una maggioranza ci vorrà tempo, perché prima deve
smaltirsi la zavorra di scontri pesanti, troppo recenti.
Ma
soprattutto i vincitori dovranno tenere fede a impegni difficilmente
realizzabili nel breve tempo, considerando la difficoltà di formare
un governo. Questo non è solo un diritto, ma un dovere che gli
elettori hanno solennemente affidato loro: ”Fierce urgency of now”
(M.L. King).
Approfittando
di una bellissima cerimonia al Quirinale, in occasione della Giornata
Internazionale della Donna, il Presidente Mattarella ha ricordato con
che metodo avessero lavorato partiti tanto distanti tra loro, ma
quanto dediti all’interesse generale del Paese, al tempo della
Costituente ed anche nella cosiddetta Prima Repubblica, nella
stagione di grandi riforme. Tra i presenti, nella Sala dei
Corazzieri, forse solo Mattarella, Napolitano ed io eravamo stati
partecipi di quella stagione, perché Finocchiaro e Bindi –
anch’esse presenti alla cerimonia – sono più giovani.
Particolarmente ricordo quanto tra donne si facesse massa critica su
alcuni dei provvedimenti che hanno segnato il progresso civile e
sociale nelle materie che hanno riformato i Codici Civile e Penale.
Il Capo dello Stato ha esortato ad imitare “quella attitudine del
senso di responsabilità e interesse generale del Paese”.
Si
sprecano le affermazioni di fiducia nella sua saggezza - e rincuorano
- tuttavia non tocca a lui comporre il governo, ma solo garantire
procedure e risultati corrispondenti alle conclusioni cui arriveranno
i partiti. In base ai numeri ogni alleanza fra compagini così
diverse sembra innaturale. Molti sono alla ricerca di precedenti cui
legare anche l’eventuale intervento pedagogico del Capo dello
Stato. Si può ricordare il precedente del governo Ciampi che servì
a decantare gli animi per presentare una nuova legge elettorale -dopo
il referendum Segni - che, appena approvata, fece fare ad Occhetto la
sconsiderata scelta di chiedere subito le elezioni anticipate. Fu un
governo ‘tecnico”, non di tecnici.
Non
c’è dubbio che eventuali e sconsiderate nuove elezioni ravvicinate
rappresenterebbero un vero pericolo per la democrazia
rappresentativa. Probabilmente è chiaro a tutti che occorre
ripensare la legge per averne una che consenta davvero di conoscere,
alla apertura delle urne, chi è il vincitore. Ci sono esempi in
Paesi europei che potrebbero suggerire un avvicinamento di metodi che
man mano possono armonizzarsi in vista della desiderabile e auspicata
formazione degli Stati Uniti d’Europa, nonostante questo sogno
sembra allontanarsi di più, data la pessima iniziativa assunta da
otto Stati europei capeggiati dall’Olanda, che intimano un
rallentamento del processo di integrazione (come se la caverà da
solo un singolo Paese europeo contro l’antiglobalizzazione di
Trump?). Purtroppo questi troverebbero una sponda anche tra i partiti
italiani che hanno vinto le elezioni e questo è un argomento da
tenere in considerazione nel cercare la maggioranza in parlamento.
Sono
molte le riflessioni suscitate dallo svolgersi della campagna
elettorale. Anni fa eravamo storditi dall’eccesso di manifesti
appiccicati su tutti i muri, anche fuori dagli spazi consentiti.
Questa volta era tristissima l’immagine dei tabelloni che recavano,
invece, la scritta “spazio non assegnato”, perché non richiesto.
Non mi è parso una bella idea, perché non tutti i candidati sono
televisivamente conoscibili né le fotine di Facebook o Wattsapp
raggiungono tutti gli elettori; un viso, una frase, un simbolo
tornano più facilmente alla memoria quando si è nella cabina
elettorale. La Rete è un formidabile strumento di dilatazione di
notizie e informazioni, tuttavia un clik impedisce le relazioni
faccia a faccia, la rettifica di notizie erronee o false, e
l’approfondimento delle idee. Senza la sferzante affermazione di
Umberto Eco: “internet? Ha dato diritto di parola agli imbecilli:
prima parlavano solo al bar e subito venivano zittiti”, ricordo che
Obama recentemente ha commentato che i social sono pericolosi per la
democrazia.
I programmi anche quando urlati in campagna elettorale,
devono proporre idee, altrimenti suscitano interesse solo per
contingenti e immediati interessi dei cittadini: si guardino le
cartine di come l’Italia si è caratterizzata col voto. Il nord
leghista e il sud 5 Stelle. Gli Italiani nel 1994 si erano specchiati
in Berlusconi, imprenditore di successo, uomo brillante che
prometteva agli elettori successi e fortune simili. Il sud si è
specchiato in un movimento che offre 780 euro al mese. Per la Lega,
che ha cancellato dal simbolo il nord, vale invece un criterio che
considero importante politicamente, che è il radicamento
territoriale. Le divisioni sono anche interne alle aree colorate in
modo omogeneo. Era già stato descritto il Paese pervaso dal rancore
sociale per cui è indispensabile che i partiti leggano i dati nel
dettaglio e non sommariamente. Per esempio si verifichi la differenza
fra il voto delle città al centro e delle periferie, nonché l’età
degli elettori che emerge chiaramente nei voti per il Senato. Le
persone più adulte hanno potuto comprendere meglio le proposte meno
improbabili e più credibili. Non è affatto un retaggio ‘antico’
perché senza politica non c’è società e senza società non ci
sono riscontri per la rappresentanza. E in questo senso francamente
ritengo che non si possano eleggere candidati in 2, 3, 5 collegi;
ogni cittadino deve poter contare su chi si cimenta sul suo
territorio, ‘mette la faccia’, si fa controllare e interagisce
anche dialetticamente (cioè anche contestato) per divenire
interprete, perché conoscitore della quotidianità dei propri
concittadini. Conseguentemente ritengo anche che sia da archiviare la
favola delle primarie, in quanto esigerebbero un sistema elettorale
completamente diverso. Non si può impedire al chiunque di porre una
firma e di offrire un obolo per poter partecipare… E’ il voto
vero che sceglie gli eletti, per cui nonostante tutto ci vorrebbero
le preferenze o meglio ancora il maggioritario. Altra esigenza dei
cittadini è di poter contare su rappresentanti che ad ogni livello
assumano un solo incarico (anche questo è un argomento che suscita
non poche critiche).
Se,
come è vero e costituzionalmente affermato, i cittadini hanno
diritto a votare, varrà la pena di tenere in considerazione alcune
avvertenze.
Se
si vota in un solo giorno e di domenica, durante il campionato di
calcio, moltissimi sono gli italiani fuori sede per le trasferte
delle proprie squadre...se si svolgono eventi importanti, come ad
esempio domenica 4 marzo la fiera dell’antiquariato a Parma con
cinquemila espositori, diventa difficile che possano votare nei
luoghi di residenza. Anche i collegi esteri meriterebbero molta più
attenzione.
E’
troppo, nel Paese di industria 4.0, attivare il voto elettronico, O
almeno tornare ai due giorni? In compenso ci sono stati migliaia di
dipendenti di servizi pubblici che hanno esercitato il diritto ad
essere impegnati nei seggi. Non è prevalente il diritto di tutti
cittadini ad avere a disposizione i mezzi di trasporto efficienti in
un giorno delicato? Credo che a questi lavoratori si possa applicare
un particolare obbligo di presenza per legge, come accade per altri
servizi di rilievo pubblico.
Si
forma la comunità anche con il bilanciamento degli interessi
comunitari: condividere e partecipare alle occasioni che riguardano
la vita di tutti e di ciascuno, con consapevolezza, costruisce
relazioni positive. Purtroppo l’individualismo ha avuto il
sopravvento anche a causa di una politica che ha puntato esattamente
sulla difesa dell’individuo e sull’ampliamento delle paure nei
confronti del futuro, del nuovo, del diverso. Il neoliberismo ha
fatto vincere il consumismo come criterio per misurare le differenze
e queste si sono dilatate. Invece tocca alla politica ridurle e
animare la speranza che il domani può essere più ricco di progresso
e di sviluppo con l’impegno di tutti, sentendosi anche orgogliosi
di ciò che si è fatto e si è in grado ancora di fare. E’ lontano
il messaggio di Aldo Moro che prevedeva che “la stagione dei
diritti sarà effimera se non sorgerà una stagione dei doveri”. La
politica ha cavalcato l’indifferenza di chi dice “non mi tocca;
fanno tutti così; chi me lo fa fare”… In questo modo peggiorano
non solo i sentimenti, ma anche le nostre città, i nostri paesi: le
nostre case comuni. Perché nessuno rispetta la strada, il prossimo,
le regole e ciascuno si aspetta che siano gli altri - il Comune, la
Regione, lo Stato - a rispondere.
Non
funziona così: “Non chiederti cosa può fare il tuo Paese per te,
ma cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. (J.F. Kennedy)
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